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La sinistra enigmistica

esce domani, un libro in allegato per tutto il mese col manifesto. C’è anche un mio breve racconto che prima o poi apparirà qui. I tentacoli si allargano, già.

Mai più senza!

Due o tre /2

Il primo amore ha pubblicato un mio racconto! nella sezione altre letture. È uscito in un’antologia per Agenzia X, a cura di Alessandro Bertante, e intitolata Voi non ci sarete.

È un racconto che parla della fine del mondo, la quale, secondo il protagonista, avrà luogo il 18 maggio 2014. È vero.
Su, non manca molto.

Ma dimmi, ti vedo un po’ agitato, cosa stai scrivendo in questo periodo?

BERNARDI:

La mia forza maggiore è la consapevolezza delle mie potenzialità. Non ho mai vissuto come una sconfitta la mia pessima forma fisica. Mi dà un vantaggio, incoraggia le persone a sottovalutarmi. Se ne avessi voglia non avrei problemi a dimagrire, ma non lo faccio. Non l’ho mai vissuta come una sconfitta.

CANNELLA:

Mi masturbo tutte le sere.

IL DOMATORE li interrompe con una mano. Estrae una chiave dalla tasca ed apre il cancello. CIACCO fa per avvicinarsi, ma con un cenno della testa lo convince a rinunciare. Silenzio.

IL DOMATORE: Su, andiamo.

Il castello nel cielo

Ecco, questo è il racconto che ho letto a Cuneo, per esor-dire. Ha senso, prima di farlo leggere troppo in giro, ringraziare Andrea Scarabelli e Marco Peano, per ragioni un po’ diverse e un po’ analoghe.

Lo abbiamo portato a Göttingen, a Reims, a Dar es Salaam, ma neppure lì il pallone ha volato. A Reims la pioggia tenne la cupola schiacciata al suolo per due giorni, finché alla fine tu decidesti di cominciare a ripiegarla così com’era, umida, senza neppure azzardare a prendere il cielo.
– Allora si va? – ti chiesi io.
– Si va.
– A casa?
– No –. Dovevamo andare a Esch-sur-Alzette. Erano più di sei mesi che non tornavamo a casa.
La prima volta che doveva volare e non ha volato è stata quasi naturale, quasi vera. Si era d’estate, si era a casa, si era a Ferrara, poco fuori Ferrara, quando provammo per la prima volta a costruire la tua mongolfiera di carta. Il giorno in cui lo avevi annunciato al quartiere nessuno ci aveva creduto, e invece alla fine tutti alzarono gli occhi al cielo.
Ci volle meno del previsto a raccogliere i fogli di giornale, con quei cestini allungati di cartone disegnati da Beatrice che avevamo sparso per le piazze, per le vie. Quando furono abbastanza riuscisti, chissà come, a convincere il preside di una scuola elementare della tua idea, e ci prestò per una settimana la palestra. Ogni giorno la pila di pagine si assottigliava, via via che una squadriglia di bambini, correndo da un lato all’altro dello stanzone, le giuntava una ad una con lo scotch sottile. La mongolfiera là dentro non ci stava, per cui assemblavano certi lastroni incomprensibili, e schizzavano intorno a quelle pozze di carta mentre tu li guidavi a cenni e a richiami, dall’alto del quadro svedese. Eri l’unico che capiva esattamente ciò che stavamo facendo. Il tempo sembrava splendido e destinato a restarlo, e quel primo pallone raggiunse in fretta gli otto-nove metri che avevi preventivato, e ogni tanto durante il lavoro io o Beatrice ti guardavamo con lo sguardo che diceva siamo fieri di essere qui.
– Che cosa state costruendo? – chiedeva a volte un insegnante incaricato della sorveglianza.
– Non lo so, – rispondevo io.
– Una grande opera di sabotaggio! – scherzava Beatrice.
– Un miraggio, – dicevi tu.
Poi lo abbiamo portato a Pristina, a Petra, a Fjerritslev, invitati dalle fondazioni e dai musei, dai detentori del capitale. Quando la fama del progetto cominciò a circolare ti mostrasti abilissimo a infettare il prossimo della tua frenesia, del nostro entusiasmo, a ottenere i pochi fondi che servivano per spostare il pallone.
– Non possiamo chiederne troppi, – dicesti un giorno, quando ancora stavi contrattando il primo invito. – Possiamo andare solo in due –. Eravamo noi tre.
– Non vado, – dissi io.
– Non vado io, – disse Beatrice. Non andò lei, rimase a Ferrara, e noi due prendemmo l’aereo per Tallinn, imbarcando la mongolfiera come bagaglio speciale, ripiegata e impacchettata in due plichi di tre metri per due. Era ancora piccola, allora. La ricostruimmo in un capannone del porto, dopo aver speso due giorni a liberarne il pavimento dalla polvere, che indeboliva lo scotch. Il dispiegamento era sempre lentissimo, bastava un movimento troppo brusco per lacerare una parete della cupola. I volontari di un centro per l’arte locale ci aiutarono, e sotto la tua guida la fecero crescere, innestando nel pallone una parete di quotidiani estoni. Erano tutti molto emozionati quando lo estraemmo dall’hangar per gonfiarlo col vento marino, ma dovemmo rinunciare, perché, dicevi tu, l’aria troppo salmastra avrebbe appesantito la carta con l’umidità, non avrebbe mai preso il cielo. Scattammo alcune foto, e ripartimmo.
La prima volta, a Ferrara, quando il pallone fu pronto era una giornata di sole terso, e le frange della cupola sbandieravano come mantelli, quella mattina, alle spire di vento che filtravano dalle imposte disarticolate della palestra. Ero già seduto sotto un canestro quando arrivasti con Beatrice sotto il braccio, le labbra nascoste in un’insenatura del collo di lei. Era il primo giorno di volo. I bambini si radunarono gradualmente di fronte alla vetrata, dove lo stanzone si apriva sul cortile. Tu non nascondevi le occhiaie, gesticolavi, spiegavi per frammenti il progetto ai docenti, a qualche cronista della stampa locale.
– Un progetto di arte contemporanea, – dicevi. – Un pallone, un pallone aerostatico, – dicevi, – fatto solo di scotch e carta di giornale! – I tuoi calcoli erano forti dei tuoi studi da ingegnere, infallibili: la mongolfiera non avrebbe sollevato pesi, ma solo sé stessa, sospinta verso l’alto dall’energia solare. – Il sole, – spiegavi, e Beatrice fotografava i preparativi, – scalda la superficie opaca di carta, la solleva! – Otto metri per sei, più venti di corda, sul punto di volare. Io ero preoccupato da alcuni alberi, dai tetti troppo vicini. Il pallone era fragilissimo, gigantesco e debole, come una mongolfiera di carta di giornale. Te lo dissi.
– Non sopravviverà al volo, – ti dissi.
– Non deve sopravvivere, – dicesti tu. – Anche se ci siamo affezionati, anche se ci crediamo, anche se ci abbiamo faticato un sacco. Noi possiamo solo costruirla, accompagnarla fino al primo contatto con l’aria, anche se è fragile e non resisterà al volo, allo schianto, – proseguisti fra gli sguardi di tutti, fra gli orecchi. – Poi la ricostruiremo, e la gonfieremo, e la manderemo di nuovo a morire nel cielo.
Poi l’abbiamo portata a Salonicco, a Tozeur, a Cambridge, Massachusetts. La mongolfiera ad energia solare conquistava i centri di arte contemporanea più usi alle installazioni cieche, alle operazioni insterstiziali, e girava il mondo alla conquista del cielo; e ad ogni viaggio cresceva, si espandeva. A Petra la costruimmo in un piazzale scavato in un monte di gesso, la polvere in pochi minuti coprì ogni cosa, ogni superficie. Le raffiche di vento strappavano sferze di sassolini dal suolo, ce le scagliavano addosso sino a ferirci, e per lavorare alla cupola sgonfia occorreva tenerla in terra con dei massi, dei pezzi di legno.
Ogni sera dovevamo piegare il pallone e riporlo, per difenderlo dal vento del deserto. Andavano via così tre, quattro ore ogni giorno, sotto il sole avventato del Mediterraneo. Quando fu pronto misurava più di venti metri, nessun uomo sarebbe bastato per reggerlo in terra, e non volò, perché la polvere aveva indebolito le giunture di nastro adesivo, andavano rifatte. Ma il mattino seguente avevamo un volo per Buenos Aires, – Non c’è tempo, – dicesti, – stavolta non possiamo farlo volare. Ma almeno è cresciuto –. E ogni volta cresceva, e ogni volta viaggiava, e ogni volta scattavamo le foto e coinvolgevamo le comunità e non spiccavamo un centimetro dal suolo.
Quel primo giorno, a Ferrara, gonfiammo metà della mongolfiera per farne una struttura temporanea; i bambini ci giocarono dentro, illuminati dai raggi opachi filtrati dalle pagine di esteri, di gossip, di economia. Quando tutto fu pronto per il decollo li facemmo uscire, riempimmo d’aria tutta la cavità con un ventilatore piccolo. Ci tenevamo lontani, coi nostri cordini colorati, con il nostro ardore, e stavamo per tirare i fili come un coro quando – No, – dicesti tu, osservando il cielo. – Il vento è cambiato, lo porterebbe sui tetti, non può volare.
– Ma come, – fecero alcuni, – il pallone non vola?
– No, – dicesti tu. – Deve essere più grande per superare gli ostacoli, fra poco lo portiamo a Gottinga, lì acquisirà volume, potrà volare. Non serve, – proseguisti. – Non serve volare senza la forza per farlo.
Lo abbiamo portato in cerca di forza a Bangkok, a Beirut, a Portogruaro, ce lo siamo trascinato dietro, sempre più smisurato. In quel periodo eri febbrile, concitato, le pause fra un viaggio e l’altro erano diminuite. – Dobbiamo arrivare a cento metri, – dicevi a volte, dopo aver rinunciato a un volo per la vicinanza di un eliporto. – Duecento, – dicevi. A Skägen misurava più di trentacinque metri di altezza, per dispiegarlo ci voleva una mattina intera, tre ore a gonfiarlo. Lo costruimmo su una spiaggia sottilissima, l’istmo più settentrionale dell’Europa unita. C’erano alcune foche, la sabbia prendeva il cielo a turbini, anche la schiuma.
– E stavolta, stavolta volate? – mi chiese al telefono Beatrice, quando anche l’aggiunta di quotidiani danesi fu ultimata, il giorno del decollo.
– No, non voliamo, – le dissi io, guardandoti ritto su uno scoglio a misurare con lo sguardo il tuo gigante di carta, un gigante triste. – C’è troppo vento, è delicato, – le dissi poi, alzando la voce a coprire la statica, il crepitare delle pareti di carta aggredite dal vento.
– Non volano, – disse Beatrice, dopo aver riattaccato, al panettiere per cui lavorava.
– Allora non torna, – le sussurrò lui, posandole una mano farinosa sulla spalla.
– No, non torna, – gli disse lei. Non tornammo.

Domani scatteremo alcune fotografie e ripartiremo, trascinandoci dietro la nostra mongolfiera fragilissima e colossale, il nostro terribile gigante di carta, e la dispiegheremo e la faremo crescere e la gonfieremo e poi la porteremo via di nuovo, senza farla volare, quando ci accorgeremo che ancora non è grande abbastanza per mandarla a morire su una città felice.

La nostra sete

Così, per riprendere un po’ il filo. Il quattordici agosto è uscito un mio racconto sul Manifesto. È questo.

La nostra sete

Alla fine Michela e Gregorio VII si conobbero solo dopo uno o due anni che lui aveva passato a occhieggiarla distrattamente attraverso la vetrina del suo malandato bar sport su piazzale Lagosta, alla sera, quando gli unici avventori erano pensionati insonni e malavitosi rosicchiati dal crack. Rispetto alle altre aveva un giro di clienti più lento, macchine facoltose e sporadiche che si avvicinavano rombando alla velocità di tre chilometri l’ora. Aveva chiesto di lei un paio di volte a Donato, quando aveva bevuto abbastanza per essere certi che, il giorno dopo, poco o nulla avrebbe ricordato della sua curiosità. Fu così che andò:
“Da quant’è che è in giro?”, gli aveva chiesto.
“Due, tre anni,” aveva risposto Donato, facendo stridere sul bancone il bicchiere vuoto di amaro.
“Prima dov’era?”
“Boh. Romania. Non lo so.”
“…”
“Se vuoi te la presento.”
“E poi?”
“Dovrai improvvisare.”
“Lascia stare, va.”
Non era vero, non voleva lasciar stare. E così quella sera era già passata la chiusura, e lui stava infilando i bicchierini di grappa nella lavastoviglie tutti allineati, simmetrici rispetto all’asse del cestello. Sentì un vociare acceso, e uno sportello chiuso troppo forte, e niente più. E poi sentì un suono di biglie di vetro che stridono l’una contro l’altra sbocciandosi nella mischia di una pista sulla sabbia, e sentì che erano unghie che grattavano contro la portafinestra già serrata del locale, attraverso la griglia della saracinesca, e  sentì che era Michela, ed aprì.
“Un Cynar, per favore”, chiese Michela, lasciando filtrare fra le labbra un rivolo di sangue in un tovagliolino.
“Che cosa è successo?”, chiese lui.
“Niente,” sorrise Michela, un po’ tumefatta.
“È una pugile professionista, e stanotte aveva un incontro clandestino per saldare un debito col suo spacciatore, ma era deconcentrata ed è andata così,” spiegò Donato.
Le spalle di Michela, visibili attraverso la camicia lacerata, erano viola e nere.
“Niente, davvero,” aggiunse Michela.
“Partecipava ad una gara di moto truccate in tangenziale e la sua Ducati è scivolata allo svincolo di viale Zara, per colpa della pioggia,” chiarì Donato.
“Niente, sul serio,” insisté lei.
“Ha difeso una ragazzina aggredita da tre ubriachi e quelli per ripicca, per frustrazione, le hanno lanciato addosso un espositore di cartoline promozionali,” concluse Donato, uscendo. Le mani della ragazza erano striate di rosso.
“Sei tutta bagnata, e un po’ rotta,” disse il barista.
“Sono Michela,” disse Michela, tutta bagnata, e un po’ rotta.
Il barista la osservò come si osserva un piccolo problema dalle conseguenze gradite. Ai suoi piedi si era formata una pozzanghera di pioggia, increspata ogni tanto dalle gocce che ancora le colavano dalla minigonna.
“Plic”, disse una goccia.
“Io sono Gregorio VII”, disse Gregorio VII. “Vieni, ti accompagno a casa.”

La casa di Michela era poco distante, in via Confalonieri; era in mezzo a un grande giardino; misurava sedicimila metri quadrati. Era stata una fabbrica distaccata della Siemens, almeno fino a quando gli operai la abbandonarono per vedersi sostituiti, negli anni e nell’ordine, dalla polvere, dagli artigiani, dai cicloriparatori, dagli attivisti di Legambiente e Rifondazione Comunista, da filosofi e artisti, e da famiglie rumene fra cui quella di Michela. Poi anche il nome cambiò e divenne Stecca degli Artigiani, e da fabbrica abbandonata il palazzo si trasformò in officina e in laboratorio e in novità e infine, con altro tempo, in opportunità di speculazione e in problema. Ma in quel momento era solo la casa di Michela, di fronte a cui Gregorio VII sulla strada di casa era passato molte volte, pensando al valore dell’immobile e a tutto quello che le attività al suo interno stavano facendo per l’immagine e la notorietà del quartiere, calcolando approssimativamente l’indotto per i bar e le gallerie, forse sognando che lì dentro vivesse la puttana che passava le notti a scrutare, e forse no.
“Non sapevo che qualcuno abitasse qui.”
“Non è vero”, disse Michela.
“Non sapevo che tu abitassi qui.”
“Non sapevi neppure che esistevo.”
“Anche questo, non è vero.”
“…”
“Stai meglio?”
“No.” Il sangue faticava a rapprendersi, per via della pioggia. Sulla fronte le stava spuntando un bozzo bluastro, come un fungo all’inizio dell’alba.
“Ti aspetto a colazione da me, domani.,” disse Gregorio VII. Questo invece era vero, la mattina seguente l’avrebbe aspettata, rinnovando l’invito, e quella successiva, e ancora poi, ogni notte ritardando di altri cinque minuti la chiusura per accompagnarla tre isolati fino alla Stecca, ogni mattino conservando fino a mezzogiorno i suoi due croissant al cioccolato dalle mani rapaci degli avventori. La nuova popolazione del quartiere prolungava le colazioni fino alle dieci, alle undici; la cioccolata, dopo un po’, finiva. Per Michela non sarebbe finito mai.
Anche le ore serali vivevano i loro cicli. Per un certo tempo, anni prima, le puttane e la loro clientela avevano rappresentato una certa fetta dei frequentatori del bar; in seguito, col trascorrere dei contratti d’affitto, dei gentrificatori, il locale accoglieva i lasciti dei ritrovi più alla moda della zona, sfaccendati coi Ray Ban e studenti assetati di daiquiri, così che un tacito armistizio aveva ridotto le visite degli habitué a qualche rapida incursione in cerca di acqua e liquore. Anche le bottiglie sulla specchiera si erano trasformate, Nardini ed Amaro del Capo cedendo il passo a fogge più fantasiose e forestiere. Michela ogni volta scherzava, ordinando bevande i cui nomi, ai suoi orecchi, sapevano di grattacieli altissimi pieni di vetro e nebbie che si diradano sulla prateria.
“Un Long Island Iced Tea, per favore.”
“Per lei”, rispondeva imperturbabile Gregorio VII, riempiendole il bicchiere di Cynar. Ne aveva ancora due o tre bottiglie. Lo beveva solo lei. “Come va la serata?”
“Così. Finisco tardi, oggi, c’è uno che passa alle tre.”
“Be’, allora mi sa che non ti aspetto”, ma dopo un po’ lo sapevano entrambi che l’avrebbe aspettata.
Quando le serate finivano presto, Michela ed Gregorio VII allungavano la passeggiata verso la Stecca, sempre di più; ciò che inizialmente nasceva dalla scusa delle sigarette, dell’auto in sosta vietata, delle colleghe da salutare, finiva per diventare un’occasione di rubare tempo assieme, di stare così. Man mano che la distanza psicologica fra i due si accorciava, iniziarono a raccontarsi alcune cose. Ecco cosa raccontò Michela: che era venuta dalla Romania nel 1998, con la famiglia; che la madre era dovuta tornare al paese; che il padre faceva il disoccupato, e l’operaio, e l’alcolista; che per un po’ aveva lavoricchiato come badante, e i figli di certe clienti ci avevano provato con lei di fronte ai genitori malati, ma altri no; che da quando viveva alla Stecca i problemi di affitto erano diminuiti; che sognava di sposarsi e di; che, col passare degli anni, il pensiero della polizia aveva smesso di lasciarle il mal di testa al mattino. Ed ecco quello che aveva raccontato Gregorio VII: che suo padre era morto poco dopo averlo chiamato Gregorio VII, fulminato da un cortocircuito nel braccio elettrico che operava alla Brown Boveri di Milano; che sua madre aveva una merceria ed una chiesa; che sognava di aprire un bar sulla spiaggia, ma lo sognavano tutti. La Brown Boveri era la Stecca prima dell’abbandono, ma Michela non lo sapeva, e Gregorio VII preferì non dirglielo.
Gregorio VII, inizialmente, lasciava che le traiettorie che seguiva con Michela si incanalassero verso vie in cui poco avrebbe rischiato di essere riconosciuto, ma dopo un po’ smise di pensarci osservando il doppio sorriso delle sue natiche sotto la minigonna, l’evidenza sfrontata del petto. Aveva l’impressione che, una volta conosciuta la ragazza, l’aggressività della sua nudità, l’erotismo così evidente della puttana, assumesse una forma di fragilità tutta sua, qualcosa che ti faceva venire voglia di toglierti il maglione e coprirle la pelle bianca. La sua pelle, osservava, era molto bianca.
“La sua pelle, sai, è molto bianca”, aveva detto una mattina a Donato.
“Non so se fai bene a parlare di lei”, aveva risposto Donato, evitando con un grugnito gli sguardi di due fanciulle a un tavolino che giocherellavano con lunghi bicchieri, l’aria tutt’attorno ad esse facendosi d’incanto bellissima e raffinata.
“Ha un protettore?”
“No. Ha un cuore. E diciannove anni.”
“…”
“…”
“Venti settimana prossima”, spiegò Gregorio VII.

Per il compleanno di Michela, Gregorio VII la portò a mangiare il pesce e le regalò un abbonamento a un corso di informatica ed italiano a cui probabilmente non sarebbe andata mai, e le disse che quella sera non lavorava perché il bar restava chiuso per un paio di mesi. Ristrutturazioni, le disse. Michela gli chiese quanti anni aveva, e se era mai stato in Romania, e in generale sembrò più imbarazzata di quanto non gli fosse mai parsa. Qualcun altro avrebbe visto in lei l’imbarazzo di sentirsi riconosciuta come papera gialla in una collezione di cigni di cristallo, e l’avrebbe capita e sospinta verso la porta con una mano leggera sulla spalla e portata da McDonald’s a bere la Sprite, e l’avrebbe amata e non sarebbe stato amato da lei. Gregorio VII no. Lui le disse che non c’era mai stato, in Romania, ma poteva portarcelo lei, per conoscere sua madre. Le disse anche di avere un figlio da una storia passata. Michela stette con lui sino a notte fonda, e si fece riaccompagnare in moto direttamente alla Stecca, senza passeggiata.
“Stai sbagliando”, gli disse Donato quando lo incrociò, un pomeriggio in cui Gregorio VII era venuto a controllare l’andamento dei lavori. “Stai sbagliando e lo sai”. Lo sapeva, e sbagliava.
Il giorno dopo il compleanno di Michela, alle due e venticinque della mattina, Gregorio VII si fece trovare di fronte al bar anche se il locale era chiuso tutto il giorno, come per un accordo silenzioso; e anche quello successivo. Ogni sera le solite strade seguivano in silenzio il loro solito percorso, e la luce e lo sguardo curioso del padre di lei osservavano dalla finestra la svolta che, sempre alla stessa ora, li portava su via Confalonieri, e Michela a notte fonda contava quello che aveva messo da parte, e Gregorio VII, dissociato e felice, studiava le sue caviglie per nulla impacciate dall’altissimo tacco, e le reggeva la borsa che a volte supponeva gravida di contante, affascinato, di lei, persino dal profumo volgare e dall’accento, quello sbagliato, così affascinato da evitare, di quando in quando, di ripetersi di avere quarant’anni e un mutuo e un locale in ristrutturazione e una condanna a pagare gli alimenti e un’automobile e tutto sommato un conto in banca di rispetto e al fianco una clandestina, una clandestina e una puttana.

I lavori di ristrutturazione del bar stavano per terminarsi, nell’aprile 2007, quando la Stecca venne sgomberata e, successivamente, rasa al suolo. Tutto accadde di prima mattina, e nel torpore del risveglio le immagini si confusero nella mente di Michela, le sirene e le guardie, i documenti assenti, il container al sole nella periferia sterrata. Gregorio VII dormiva ancora, a quell’ora, si può dire quasi serenamente, la sua coscienza forse turbata più dalle rate del mutuo che dalla decisione di firmare la petizione per lo sgombero. Adesso ha riaperto, il locale, e si chiama Wine bar qualche cosa, e ha una nuovissima dotazione di divanetti di pelle bianca, e l’aria condizionata d’estate e tanti spuntini colorati dalle diciannove in poi. La vecchia clientela se ne tiene alla larga, ormai, gravita verso altre marginalità, si sposta ogni giorno impercettibilmente più a nord, lungo viale Zara e la Fulvio Testi, sino quasi allo svincolo della tangenziale. Donato ci passava ancora ogni tanto, ma ha smesso da quando è finito il Cynar. Neppure io, ormai, ci vado più.

La posta pneumatica

Alek O. mi ha chiesto un testo da includere in un suo lavoro esposto al miArt. È questo.

E poi anni dopo poi col passare degli anni le tubazioni della posta pneumatica hanno cominciato a porre un problema un problema di ordine sì di razionalità nello sfruttamento delle risorse c’era stata la rivoluzione digitale la posta pneumatica puzzava di antico come i serbatoi dei compressori in cantina come le sfere delle ultime olivetti come i primi strati di moquette e così sono finite riciclate anche le tubazioni al pari delle vecchie lettere sono finite occupate da doppini della rete interna da snodi di fibra ottica alcuni hanno addirittura ipotizzato i condizionatori ma serviva l’isolamento termico era costoso era forse troppo complicato  o inutile anche la moquette pone un problema un problema periodico ripetitivo il suo invecchiamento è già previsto a budget lavarla è possibile sino a un certo punto poi la rimozione torna utile e conveniente anche il colore dei nuovi strati si trasforma con lo scorrere dei consiglieri d’amministrazione c’era un marrone negli anni settanta che poi si è fatto crema poi blu il crema costava troppo ricordava il cosiddetto boom le aspettative irrealistiche sull’avanzo primario solo i ficus resistono i ficus e i neon entrambi forse screziati dal mutare del gusto nelle forme dei vasi dei portalampada ma entrambi costretti a una successione periodica generazionale la pianta del nuovo anno non è che una riproduzione della precedente una clonazione un erede ma lungo tutta la serie l’aspetto la struttura sopravvivono resistono anche all’avvicendarsi degli interinali della dirigenza delle imprese di pulizie che di notte li nutrono di poche gocce di acqua distillata l’avvicendarsi di queste ultime è più rapido basta un nonnulla a disdire il contratto una macchia tralasciata una luce rimasta accesa la notte come questa plafoniera come questo neon manca ancora così tanto a lunedì e continua a risplendere con ostinazione nessuno tranne i ficus godrà del suo bagliore.

Flair

mi ha chiesto un racconto, uscito questa settimana.  È questo.

Sai, ho pensato molto a cosa ti dirò quando ci rivedremo. Ti dirò del lampadario che ancora va appeso, dei bulbi annegati, spiegandoti che non sono mai riuscito ad avere un rapporto con le tue piante, non sapevo come trattarle. “Quando devo annaffiarle?”, ti chiedevo. “Quando hanno sete”, mi dicevi tu. Ho passato una mattina, una delle prime, con una bottiglia d’acqua in mano, in pigiama, a interrogarle sulla loro sete. Non capivo nemmeno loro, e ho vuotato la bottiglia.

Ti dirò del cantiere, del suo magnifico disordine. Adesso i giardini li hanno chiusi del tutto, lasciando solo una passerella di cemento per raggiungere i negozi sul lato opposto del parco; il mercato è stato trasferito qualche isolato più in là, e gli schiocchi delle cassette di frutta impilate alle sei del mattino sono stati sostituiti dallo stridore delle carrucole, dalle chiacchiere degli avventizi. Dalla finestra si vede il parcheggio interrato crescere in profondità, ogni giorno un po’ più spalancato come la bocca di un fiore carnivoro.

Ti dirò che quella del piano di sotto ha subaffittato una stanza a un corista greco che da due mesi passa le notti a preparare il secondo atto dei Puritani, e di giorno lavora nel bar sotto la fermata della metro. Non ha ancora imparato bene l’italiano, e di tutte le sue ripetizioni notturne si coglie solo un brano ogni tanto. Non sa dire “cappuccino” e “libertà”. Per scusarsi del fastidio, una volta che l’ho incontrato, mi ha offerto dei biglietti per le prove generali, perché qualcuno doveva avergli fatto sapere che suonavi anche tu. Sono rimasti attaccati al frigo per un po’, e poi sono caduti. Ti dirò che non andavamo mai al cinema solo perché non mi ero reso conto di aver bisogno di occhiali. Adesso, alla sera, i lampioni hanno smesso di sembrare dei fuochi d’artificio. Anche un sacco di altre cose hanno smesso di sembrare dei fuochi d’artificio.

Ti dirò che i calzini che hai dimenticato fra i miei sono ognuno una sorpresa ambigua quando pesco alla cieca di prima mattina. Ti dirò che degli assassini indecisi e calvi hanno rubato la tua bicicletta, di notte, torcendo la catena con una sbarra di ferro sino a deformarne la saldatura al lucchetto, ma non è vero, l’ho data via per salvarla dalla neve, dall’isolamento. Ti dirò del mio libro che va avanti a stare fermo e di C. che è stata presa al dottorato dell’Institut Nicod e di G. che forse verrà trasferito in Sudafrica e del concerto a cui stavo per invitarti quel giorno al supermercato, quando ho visto sulla tua spalla la mano dell’uomo col dolcevita beige.

Ti dirò che ci sono dei problemi coi tubi dell’acqua, e ogni tanto lo scaldabagno comincia a gemere e sembra che parli, specialmente al mattino perché tutti fanno la doccia. Ti dirò che ho cambiato bar, e pizzeria, e orari, e taglio di capelli. Ti dirò che all’inizio erano tutti amorevoli e preoccupati per me, si facevano sentire e mi invitavano a mangiare e a ignorare insieme le domeniche sul divano, e dopo no. Ti dirò che non c’è stata nessun’altra, e sarà falso e vero. Ti dirò che per appendere il lampadario bisogna essere in due, ho sempre paura di usare il trapano in una stanza vuota. Anche per andare all’opera e per fare la spesa che dura due settimane e per alcune altre cose. Ti dirò tutto questo e molto ancora, mezze verità, giustificazioni fuori luogo, doppie negazioni, concessioni tardive, ripensamenti, ellissi, ritirate improvvise, e poi a un certo punto incespicherò nelle espressioni e smetterò di parlare e non so più che cosa ti dirò. Torna, ti dirò.

ioDonna

ha pubblicato ieri un racconto del titolare, qui. È questo.


1829
(un voto nel vuoto)

Ebbene, fra trent’anni i ministri saranno forse un po’ più in gamba, ma onesti tanto quanto quelli di oggi. Si troverà sempre un re che vorrà accrescere le sue prerogative; l’ambizione di diventare deputato, la gloria e i milioni continueranno a togliere il sonno ai ricchi di provincia; e a tutto questo verrà dato il nome di “essere liberale” e “amare il popolo”. Sulla nave dello Stato, tutti vorranno stare al timone, perché è il posto meglio remunerato. Non vi sarà mai un posticino per il semplice passeggero?
(1829)

Il 4 aprile la città celebra sant’Isidoro di Siviglia, manca una settimana alle elezioni e il sole splende che è una festa, accendendo di bagliori lattiginosi gli strascichi di nuvole dei temporali del passato più o meno recente, mentre io resto chiuso in casa con le imposte schiacciate contro i vetri perché due giorni fa hanno arrestato Ada, e chissà se verranno a cercare anche me. Il supermercato non mi chiama da un paio di settimane, e inganno le giornate seguendo la campagna elettorale sulle emittenti locali. Me lo diceva sempre Donato. “Vedrai”, mi diceva, “dove non arriva la coscienza politica arriva la noia. Aspetta la disoccupazione e ti accorgerai di quanto ti appassionerai anche a queste elezioni.” Aveva ragione. Diceva anche: “Vuoi vedere che stavolta l’Italia cambia davvero.” Anche lì, aveva ragione. L’Italia è cambiata davvero, sotto il vessillo della legge bipartisan per la coscienza repubblicana e contro quella che chiamano antipolitica, promulgata d’urgenza col voto positivo del 98% dei presenti in aula. E ci sono stati gli arresti – fra cui quello di Ada – e i temporali e la disoccupazione, e adesso ci saranno le elezioni, che fra le altre cose hanno portato Donato a smettere di dire quello che diceva prima e coltivare un giardinetto di speranze nel nome di Quella Cosa Nuova.

Quando Ada era ancora libera e Donato era ancora comunista, circa un mese fa, siamo andati a una serata di presentazione del programma di Quella Cosa Nuova per la nostra circoscrizione. Ci aspettavamo convegni e bandiere, ma anche da noi in campagna sono ormai archiviati i tempi della festa dell’unità, e già dalla strada si sentiva un codazzo ovattato di musica lounge. Al di là della vetrata del ristorante in cui si svolgeva “l’evento” si vedevano capannelli di sconosciuti che si ignoravano di fronte al buffet, e un paio di organizzatori silenti. C’era anche la Giovane Candidata Donna, che tutti conoscevamo dalla televisione, con uno dei suoi magnifici abitini di lana. Quel giorno il quotidiano locale annunciava che no, non avrebbe lasciato l’università per via degli impegni politici, le sarebbe sembrato un errore di priorità. Al vederla ho preferito attardarmi fuori, di fronte all’ingresso, e Ada è rimasta con me. Dalle finestre abbiamo osservato Donato immergersi nella folla e scambiare qualche parola con un uomo basso e senza barba. Ada era appena stata licenziata dalla profumeria e fumava quasi senza interruzione; giocava con tre sassolini in una pozzanghera. Aveva voglia di raccontarmi di una ragazza che aveva conosciuto al biliardo, qualche sera prima; erano andate a casa insieme, un po’ per gioco e un po’ no, ed erano già addormentate e semisvestite quando alle cinque del mattino il telefono della ragazza aveva cominciato a squillare, insistentemente. Erano i suoi genitori; non sapevano che non sarebbe tornata a casa. Il padre è venuto a prenderla quasi un’ora dopo, spezzando coi fari della Volvo un’alba nebbiosa di anice, a stento ignorando l’ubriachezza della figlia e la scollatura di Ada. Prima di andarsene, nell’imbarazzo di un saluto, quando la figlia era già riversa sul sedile anteriore dell’auto, aveva teso la mano alla sconosciuta che aveva di fronte. “Io sono Graziano, comunque. Piacere.” Ad Ada era parso molto tenero, e me lo ha ripetuto più volte. Mi ha detto anche che non capiva l’interesse di Donato per quella serata e in generale per Quella Cosa Nuova, e che le sembrava senza senso andare a votare un trovarobato di ex democristiani ed ex comunisti solo perché Quelli Dall’Altra Parte, ex democristiani ed ex fascisti, sembravano impresentabili e meno aperti al presente. Erano tempi in cui un discorso del genere si poteva ancora fare. Era un mese prima. Io e Ada stavamo quasi per andare a bere qualcosa, abbandonando Donato a qualunque destino avesse scelto di non scegliersi, quando il telefono mi ha annunciato che il mattino dopo alle cinque sarei stato di servizio al bancone macelleria di un supermercato nell’hinterland. Sono tornato a casa a dormire; Ada è andata a lanciare noccioli di ciliegia alla finestra della sua bella e Donato è rimasto a farsi sedurre dalle lusinghe dell’uomo basso e della Giovane Candidata Donna, che da sopra l’orlo della gonna lasciava intravedere un tatuaggio a forma di impronta digitale. Il giorno dopo Donato ci avrebbe detto che l’uomo basso aveva diverse idee interessanti sul futuro del nostro paese, sulla lotta al precariato che eravamo noi, sul rinnovamento di una classe politica e intellettuale stagnante da decenni, e che per questo avrebbe votato Quella Cosa Nuova. Era vero, le aveva. In seguito il vertice del partito avrebbe relegato l’uomo basso ad una posizione di scarto, che mai lo avrebbe portato in parlamento, e lui dopo le elezioni sarebbe tornato in Inghilterra a sparlare stancamente di un paese in declino. Donato avrebbe comunque votato per Quella Cosa Nuova.

A cinque  giorni dalle elezioni le uniche fonti di luce della mia stanza sono il televisore e i tagli di luce che filtrano dalle imposte. Le stazioni locali non fanno che parlare della Giovane Candidata Donna; perlopiù attaccano la sua inesperienza, i suoi probabili collegamenti, i suoi pronunciamenti – a liste già bloccate – contro la legge per la coscienza repubblicana. Apprendo da un’intervista su Internet che non ha mai avuto una storia seria, e crede di non averne il tempo, fra gli impegni politici e l’università. Il suo sito offre moltissime foto chiaramente scattate lo stesso giorno. Ne spicca una diversa, più scura, in cui lei ha un altro taglio di capelli. Il portone alle sue spalle sembra quello di casa mia. Vengo interrotto dal suono del campanello.

Quella sera, nei tavolini di fronte a un chiosco, riassumo a Donato quanto mi hanno detto i carabinieri. Mi hanno detto che era solo una chiacchierata, sapevano che ero amico di Ada. Mi hanno detto che lo sanno, come si sentiva lei e come probabilmente mi sento io, e ci capiscono, e lo sanno, che è tutta una merda, ma che certe cose, vista la situazione, è meglio tenersele per sé. Mi hanno anche detto che sono consapevoli che siamo bravi ragazzi e che se continuiamo a essere bravi ragazzi non succederà nulla di male. Donato è convinto che la nuova legge per la coscienza ecc. in fondo sia stata una buona cosa, sta riuscendo a combattere quella che chiamano antipolitica, che tutti dobbiamo voler combattere. In fondo, prosegue, pulendosi col dorso della mano l’alone di birra che gli resta sui baffi, Ada se l’era cercata, e comunque il fatto che la legge sia nata dall’intesa fra Quella Cosa Nuova e Quelli Dall’Altra Parte non è necessariamente un male. Il Paese, dice, ha bisogno di unità e di coscienza civile. È per questo che ha senso, ed è di massima importanza , punire con la reclusione fino a fine scrutinio chiunque faccia propaganda all’astensionismo e al non-voto. La gente deve capire che deve votare, e che il paese ha bisogno di loro. Sì, anche Ada, prosegue. Tento di chiedergli se sa qualcosa della Giovane Candidata Donna, ma taglia corto dicendo che devo smettere di pensarci. Ogni tanto si sente una sirena in lontananza. I muri sono pieni di manifesti stracciati o cancellati sui quali alle volte si intravede un “non” scritto frettolosamente.

Mi chiamano per un paio di pomeriggi in un altro supermercato, e mi trovo accanto una ragazza che conoscevo, Francesca; è fuoricorso ad agraria e taglia la pancetta molto spessa. Ci siamo incontrati qualche mese fa, il giorno dopo la mia laurea, in coda allo sportello dell’agenzia di work-on-call. Ci eravamo subito sorrisi perché eravamo gli unici vestiti in modo formale, come per andare a un colloquio di lavoro. Non era un collloquio di lavoro. Hanno preso i nostri dati e ci hanno chiesto se eravamo vegetariani. “C’è molto bisogno in macelleria, negli ultimi tempi”. La cravatta mi faceva sudare il collo, e Francesca aveva un vecchio walkman nobilitato dalle cuffie bianche dell’iPod, ma la truffa aveva vita breve perché ogni tanto, durante l’attesa, doveva cambiare il verso della cassetta.
Fra gli habitué del centro commerciale in cui mi ritrovo con Francesca spiccano un paio di uomini sulla trentina, dai lineamenti slavi, che a quanto pare gironzolano tutti i giorni nel primo pomeriggio di fronte al bancone dei cibi precotti. Quando credono che io e Francesca siamo girati a tagliare il roast-beef prendono una scatola di plastica e si tuffano nelle corsie più trafficate. Nel giro di cinque minuti le hanno ripulite completamente e abbandonano gli imballaggi dietro gli articoli più voluminosi, le pentole a pressione, i lettori dvd. Una volta una guardia giurata li ha fermati, mostrando loro le immagini registrate dei loro pranzetti. “So che siete tranquilli, e volete solo mangiare,” ha detto. “Però la prossima volta portatevi a casa le confezioni, dopo mangiato; se le lasciate in giro ci va di mezzo qualcuno.” Io e Francesca non possiamo andarci di mezzo perché non siamo assunti regolarmente, e ci vendichiamo di ciò tagliando il roast-beef molto lentamente.

Francesca della legge Biagi non pensa nulla. Vota Quelli Dall’Altra Parte perché lo ha sempre fatto suo padre e perché nel suo quartiere le panchine sono spesso piene di spacciatori. Aveva considerato la possibilità di non votare, ma poi la nuova legge le ha fatto cambiare idea. Le chiedo che opinione si è fatta della Giovane Candidata Donna, dei suoi meravigliosi capelli, ma la mia domanda desta in lei un’ombra di antipatia, e per questo decido di non parlarne più. Sulla strada verso casa, l’autoradio trasmette un messaggio promozionale di Quella Cosa Nuova; “Sicurezza”, dice la radio. “Futuro”, dice la radio. “Crescita”, dice la radio. Segue, interrotto da un programma qualsiasi, un messaggio promozionale di Quelli Dall’Altra Parte. “Crescita,” dice. Dice anche: “Futuro”, e “Sicurezza”. Un intervistatore strappa alla Giovane Candidata Donna la confessione delle ragioni del suo tatuaggio, di cui ormai parlano tutti. “In nome di una vecchia amicizia”, spiega lei. A seguire esprime un commento sui nuovi giardini che dovrebbero sorgere a pochi passi dalla mia strada. Parla di cani e di pale eoliche; la sua voce, stropicciata dalle interferenze, mi sembra molto vicina.

Il giorno prima delle elezioni mi telefona la madre di Ada, per invitarmi a una dimostrazione di fronte alla questura organizzata dagli amici e dai genitori di tutti i ragazzi arrestati per via della nuova legge; saranno rilasciati solo a urne chiuse, di notte. A metà pomeriggio ci ritroviamo sul marciapiede in una cinquantina, ma il numero aumenta via via che gli uffici e i negozi liberano il personale alle strade. Non c’è molto da dire, per cui nessuno dice nulla; non ci sono neppure cartelli. Da una finestra si scorge il questore che non sa bene come guardarci. La gazzetta del paese ha riportato l’altro giorno che secondo fonti attendibili non voterà neppure lui. Vedendo le strade tappezzate di simboli di partito e candidati sorridenti non riesco a non immaginare come saranno fra un paio di settimane, quando forse avremo un governo e i manifesti inizieranno a lacerarsi così come i programmi, lasciando solo brandelli di slogan, lineamenti spaiati, frammenti; quando alzo gli occhi incrocio lo sguardo della madre di Ada. Mi dice che Donato si è sforzato in tutti i modi di trovare una scusa plausibile per non venire e alla fine si è rintanato in una specie di mutismo partitico e sconsolato. “Non verrà”, mi dice. “Abbiamo invitato anche la Giovane Candidata Donna. Non verrà nemmeno lei, benché mi sia parsa seriamente dispiaciuta.”

Ci saranno tre, quattrocento persone, in strada il giorno prima delle elezioni, a manifestare in silenzio contro l’ultima grande legge bipartisan. Non c’è nessuno della stampa. Poi è tardi, e si va a casa.
Quando accendo il televisore  per seguire, senz’audio, lo spoglio in diretta l’unica cosa certa è che un’affluenza così bassa non si è mai registrata nella storia della repubblica. Nella nostra circoscrizione ci si aggira intorno a un terzo degli aventi diritto; in studio spicca l’assenza della Giovane Candidata Donna, ma in fondo era solo un personaggio minore della nostra piccola elezione locale. La luce verdastra dello schermo illumina a tratti le pareti scrostate, il pavimento coperto di ninnoli e vecchi giornali.

Sono quasi le undici e trenta quando sento bussare alla porta del mio appartamento. Ti domando se sei tu, e mi rispondi di sì. “La mia assenza”, mi spieghi, “era legata solo alla piega che stavano prendendo le cose fra di noi, e alla tua incapacità di parlarmi.” Mentre ti sfilo la giacca mi chiedi di spegnere la televisione; i tuoi capelli sono molto sporchi. Metto l’indice sinistro sul tuo tatuaggio, combacia ancora. “Certo che combacia”, mi assicuri tu, seduta sul letto, “non è cambiato niente”. Mi assicuri anche che la tua candidatura è stata solo un atto promozionale del partito, e accenni al fatto che non sai bene cosa accadrà adesso, e che le mani in cui si consegna un paese dovrebbero tremare. Le tue mani tremano. Te lo dico: “Le tue mani tremano”, ti dico. Ti dico anche che non ti ho votata. “Avevo bisogno di tornare qui”, rispondi tu.

Il computer, in silenzio in un angolo, mi informa che la fine dello spoglio mostra i due maggiori schieramenti in esatta parità, stazionari sul 41%; quasi nessuno dei partiti minori è riuscito a oltrepassare gli sbarramenti. Fra un paio d’ore i non votanti usciranno dalle patrie galere, forse convinti di aver fatto una cosa giusta e forse no.