È già buio, dolcezza.

Il blog si è affievolito, e poi si è spento.

Il nuovo indirizzo è: www.vincenzolatronico.it.

Sì, ma ci sono notizie, frattanto.

Il sole 24 ore

Mi ha fatto un’intervista davvero lunga e interessante per la sezione “Lavoro” del suo portale (si dice ancora portale?). È qui.

 

Prima o poi dovrò aggiornare questo blog, lo so.

Mai più soli 2/ tre

soliL’11 novembre 1947, Winston Churchill ha detto che molte forme di governo saranno prima o poi sperimentate in questo mondo, cito, di peccato e di dolore. Nessuno sostiene che la democrazia sia perfetta o onnisciente. La democrazia è il peggiore sistema di governo che ci sia, ha detto Churchill, esclusi tutti gli altri.

È naturale che volessimo parlare con Winston Churchill, oggi, qui, a Mai più soli, il lucernario di Radio Onda d’Urto nell’aldilà, dato che in questi giorni, in Italia, si voterà per quale sia il candidato peggiore che ci sia, ad eccezione di tutti gli altri, nel partito italiano peggiore che ci sia, ad eccezione di tutti gli altri. Purtroppo, quando Kurt lo ha avvicinato Winston non ha voluto parlare delle primarie del partito democratico. “Cosa vuoi che votino!”, ha esclamato rabbioso. “È tutto già deciso. È così che fanno i comunisti.”

Ha seguito un silenzio un po’ imbarazzato. Winston ha insistito.

“Davvero, Kurt… Io lo so benissimo come vanno queste finte elezioni imbastite dai comunisti! È una farsa.”

Kurt gli teneva il microfono dello Hooligan sospeso di fronte alla bocca, immobile. Non ha risposto. Winston ha cercato con gli occhi un viso che gli spiegasse la ragione di quel silenzio, ma non c’era nessuno in giro, neppure Janis Joplin. Ha abbassato il tono di voce, cercando di evitare il microfono. Alla fine ha domandato, quasi di soppiatto:

“È dei comunisti che stiamo parlando, vero, Kurt? Sono… sono comunisti, no?”

Anche adesso, però, nessuno ha risposto.

 

Una persona, però, si è presentata spontaneamente da Kurt per rilasciare una dichiarazione. Non aveva mai voluto parlare ai microfoni di Radio Onda d’Urto, ha detto, perché non credeva nei mezzi di comunicazione di massa. Sosteneva di essere un grande esperto in materia, dato che, diceva, aveva partecipato alle prime primarie organizzate nella storia dell’umanità.

La sua campagna elettorale, ha raccontato a Kurt, era andata benissimo. Aveva costruito un team molto valido e la squadra di governo era compatta intorno a lui. Si rivolgeva a un elettorato giovane, desideroso di cambiare le cose, con slogan efficaci e un’idea chiara di come doveva essere la società intorno a loro: più libera, più giusta, più tollerante.

“Come Obama!”, ha esclamato Kurt.

“Sì, come Obama, più o meno”, ha ammesso lui. “Anche se io non condivido i suoi ammiccamenti verso l’elettorato religioso. Ma l’America, Kurt, lo sai meglio di me come funziona.”

“Eh, sì, l’America è così, almeno ora”, ha commentato amaramente Kurt. “Mica come l’Italia. ”

Insomma, dopo una campagna elettorale estenuante e costellata di successi, finalmente sono arrivate le prime primarie della storia dell’umanità. Il popolo è accorso per scegliere chi dei due candidati fosse il peggiore, ad eccezione di tutti gli altri.

“La vittoria era assicurata”, ha confessato a Kurt. “Avevo un programma democratico e buono, un sacco di elettori, ero il candidato più giovane. Era tutto dato per certo. Non ho proprio saputo cosa dire, quando alla fine ha vinto Barabba.”

 

Prima di chiudere la puntata, Kurt stava aspettando il cablogramma di Giuseppe Stalin, il nostro patron. Eppure, gironzolando intorno allo Hooligan, si accorgeva che Winston Churchill, che dopo l’intervista rifiutata non si era più allontanato, sembrava pensoso, irrequieto. Gli lanciava sguardi speranzosi e sembrava quasi sul punto di chiamarlo, ma poi immediatamente cambiava idea. Per tagliare la testa al toro, Kurt gli si è avvicinato brandendo il microfono.

“Senti, Winston”, gli ha detto. “Poche storie. Qui stiamo chiudendo. Vuoi fare un’ultima dichiarazione? La precedente”, ha detto poi, “non è che ti faccia fare bella figura.”

Winston ha esitato un po’. “Sì, Kurt, mi hai convinto. In realtà”, ha detto, “neppure quella ancora prima, quella con cui hai aperto la puntata, mi fa fare una bella figura. Vorrei ritrattarla.”

Kurt si è detto molto stupito. “Ma Winston”, ha obiettato, “quella sulla democrazia è la tua citazione più diffusa al mondo! Tutti la trovano abbastanza convincente. Anche io l’ho usata, in un libro. Non capisco”, gli ha detto, “come mai vuoi ritrattarla?”

“Be’, Kurt”, ha detto Churchill. “Diciamo che seguendo queste particolari primarie mi sono accorto della falla, o dell’errore, che c’era nell’applicazione ai candidati di questo giro della mia idea sulla scelta peggiore ad eccezione di tutte le altre. L’errore”, ha detto Winston, dopo una pausa, “era partire dal presupposto che almeno una delle scelte fosse la meno peggio.”

 

Il cablogramma, puntualmente, è arrivato. Caro Kurt, diceva, vorrei attirare l’attenzione del vecchio Winston, che saluto nonostante tutti i dissapori, su una frase da lui pronunciata nel 1937. È questa: “mi auguro che Hitler, alla fine, passi alla storia come l’uomo che ha riportato pace ed onore alla grande nazione germanica, riportandola serena, disponibile e forte nella grande famiglia europea”. Se proprio Winston desidera rettificare la citazione a cui deve la fama di campione della democrazia, proseguiva il cablogramma, potremmo sostituirla con questa.

Have fun,

Giuseppe Stalin

 

Qui Vincenzo Latronico, dalla periferia di Berlino ovest, in collegamento telefonico con Kurt Vonnegut, dall’aldilà. Io, alle primarie, marino.

L’indiano in giardino

Un indiano pellerossa è in una limousine dagli interni neri. È nudo e la pelle dei sedili a contatto col suo corpo lo fa gelare: dalla sua bocca esce una nuvola di fiato che appanna i vetri. L’indiano sbuca dal tettuccio dell’auto e fugge via. Ricompare al centro di un cavedio adibito a magazzino per insegne luminose dismesse. L’indianogira lentamente su se stesso, alza gli occhi e sopra la sua testa c’è uno squarcio geometrico di cielo. Allora risale le strette pareti che lo circondano, aggrappandosi con le mani e spingendo con i piedi, e se ne va. Scendendo distrattamente le scale di un laboratorio sotterraneo si ritrova l’indiano: questa volta blocca il passaggio alla stanza successiva. Con le braccia conserte sorride, obbliga i presenti alla convivenza in uno spazio minuscolo costituito da una breve rampa di scale. Alle prime luci dell’alba, in una piazza attorniata da palazzi silenziosi, un bar con tavolini rossi sul marciapiede diventa la ludoteca che avremmo rischiato di non avere. L’indianoaspetta seduto toccando piano le pedine di legno. Appoggia al muro la nuca coperta di piume e guarda il viso del suo compagno di giochi. Poi scrolla il capo e si sfrega le gambe con le mani. Si alza e inizia a correre, per fermarsi solo davanti a un autosalone con vetture di lusso dalle silhouette allungate: la cancellata aperta scopre un tappeto di auto strette una contro l’altra. Un indiano pellerossa è in una limousine dagli interni neri.

1255797038g

C’è una mostra, a Milano, nel weekend a cavallo fra ottobre e novembre.

Mai più soli due! / 2

soliSi torna, da Berlino. Nella puntata c’era anche un addendum, ma qui, no. Era arrivata Camilla, da quelle parti.

Il potlatch è un istituto rintracciato in numerosissime culture tribali più o meno evolute. La parola significa, più o meno, “dono onorifico”. Funziona così: per manifestare la propria superiorità nei confronti di qualcuno, un membro della tribù non ha che da fargli un dono. Maggiore l’entità del dono, maggiore l’umiliazione per chi lo riceve, che se vuole riguadagnare la propria dignità dovrà ricambiare con un dono di valore superiore. Io e Kurt Vonnegut non sapevamo nulla del potlatch, ma ce ne ha parlato Georges Bataille, che lo ha messo al centro della sua teoria filosofica e che, ovviamente, è morto, parecchi anni fa. È per questo che può parlare con noi, ai microfoni di questa seconda edizione di Mai più soli.
Non sarà l’unico a parlare. Se ricordate, infatti, da questa puntata ospiteremo un commento conclusivo di Giuseppe Stalin, in riconoscenza del fatto che ci presta il suo accelleratore nucleare privato per far funzionare lo Hooligan. La vita è così.
Georges Bataille ha parlato del potlatch a una decina di militari francesi, morti di fresco, che avevano iniziato una manifestazione di protesta di fronte allo Hooligan qualche giorno fa. Ecco perché stavano manifestando: durante la rassegna stampa, al mattino, avevo letto a Kurt che si è scoperto che i soldati italiani in Afghanistan mantengono la pace non in punta di lancia ma in punta di carta di credito, corrompendo la resistenza locale perché non combatta. A quanto pare, non sapendo di quest’abitudine, gli eserciti stranieri che sostituiscono le missioni italiane credono di essere in territorio di pace, e quando i locali, adirati per l’interruzione dei pagamenti, fanno una rappresaglia, i nuovi soldati sono colti impreparati e, be’, muoiono, perché è questo che si fa nelle guerre.
È quanto è successo, di recente, a dieci soldati francesi, diceva il giornale. Ovviamente i francesi incolpavano di ciò la strategia monetaria dei nostri figli della lupa. Sapendo che io sono italiano, i dieci hanno fatto un picchetto di protesta di fronte allo Hooligan, il telefono con cui comunichiamo con l’aldilà. Georges Bataille, loro illustre connazionale, ha tentato di calmarli.
“Non capite”, ha detto loro. “I soldati italiani non stavano corrompendo la milizia afghana. Era un potlatch. Donavano loro dei soldi per umiliarli tanto da farli star buoni. Funzionava, evidentemente. Strano, però”, ha detto poi Georges, “che solo agli italiani sia venuto in mente di usare un istituto primitivo come questo.” Nesuno ha apprezzato l’uscita di Bataille, ed i soldati hanno seguitato a rumoreggiare.

Ma una voce si è inserita all’improvviso. “Ragazzi”, ha detto la voce ai dieci francesi – undici con Bataille. “Ragazzi, scusate, lasciate stare il filosofo. Temo che questa volta sia colpa mia.” La voce, ovviamente, era dell’ex segretario di stato americano George Marshall, che ha lasciato il proprio nome al più grande piano di potlatch mai realizzato a livello internazionale.
I francesi si sono azzittiti, e Marshall ha continuato. “Sapete”, ha detto. “Mi sa proprio che gli italiani hanno imparato da me, la strategia di arrivare in terra straniera e lanciare soldi in giro finché i problemi non scompaiono. Noi americani abbiamo fatto la stessa cosa nel loro paese, solo”, ha detto, “che invece di corromperli per scongiurare la guerra, lo facevamo per scongiurare il comunismo.” Kurt non ha fatto in tempo a interromperlo, ma ha temuto un intervento del nostro patron Giuseppe Stalin.
In quel momento si è intromesso il mahatma Gandhi, mandando un breve commento scritto, come suo solito, con la glassa di cioccolato su una torta di panna. Ecco cosa recitava la torta: “Idea da considerare, questa, che in guerra, invece di lanciarsi bombe e proiettili, gli avversari si lancino addosso montagne di soldi. Poi, chi li finisce prima, perde. Se l’avessero fatto gli inglesi da noi”, ma sulla torta era finito lo spazio, e nessuno seppe cosa sarebbe successo se gli inglesi avessero conquistato l’India a colpi di sterline invece che di cannoni.

I soldati francesi parevano essersi dati una calmata; temevano, tuttavia, che Marshall non avesse capito il punto della loro protesta. Loro, gli dissero, non erano contrari a dare soldi invece che fucilate. Quello andava pure bene. Il problema era che gli italiani avrebbero dovuto dire loro della storia dei pagamenti, prima di andarsene, così che loro potessero andare avanti allo stesso modo. In mancanza di quell’informazione, finiti i pagamenti, è tornata la guerra.
George Marshall disse ai militari che li capiva benissimo. Anche nel suo caso, con l’Italia, era successa la stessa cosa. Spiegò loro che il suo contatto per il potlatch, in Italia, era un certo partito, che aveva governato per decenni, da dopo la guerra sino a molto di recente. Finché c’è stato quel partito, ha detto, i pagamenti sono continuati. “Poi, però”, ha proseguito, “al loro posto è arrivato il governo di un miliardario che non conoscevo. Immagino che lui i pagamenti li abbia interrotti”, ha concluso Marshall, “perché da allora, in Italia, sono diventati tutti
comunisti.”

A parlare del diavolo! Poco prima di chiudere la puntata è arrivato il cablogramma del nostro patron, che, ovviamente, siamo ben lieti di inoltrarvi. Non concordo, diceva il cablogramma, con l’analisi dello stimatissimo collega Gandhi. In particolare, proseguiva il cablogramma, non credo che l’istituzione della guerra sarebbe migliore o più giusta nel caso che, invece di lanciarsi addosso strumenti di morte, i nemici si lanciassero addosso soldi. Non mi sembra, in realtà, che ci sia una grossa differenza fra le due. In entrambe perdono i poveri.
Sincerely yours,
Giuseppe Stalin.

Qui Vincenzo Latronico, a pochi chilometri dal confine fra Germania e Polonia, in collegamento telefonico con Kurt Vonnegut, dall’aldilà. Mai più soli.

After the first death

Giace sul fondo con i primi morti la figlia di Londra,
La avvolgono i suoi lunghi amici,
I grani senza tempo, le vene scure della madre,
Segreti nell’acqua insensibile, giù,
Nel rombante Tamigi.
Dopo la prima volta, non si muore più.

È un tentativo di traduzione, non ne sono contento ma mi sembra meglio di quella ufficiale. È anche un commento a un accadimento recente. Ciao.

Sono i migliori i primi ad andarsene

soliE per questo noi di Mai più soli siamo ostinatamente qui. Si ricomincia.

Non è che si possono abbandonare le situazioni così, senza neppure un bigliettino d’addio. È più o meno questo che deve aver pensato Kurt Vonnegut, quando dopo tre mesi di silenzio allo Hooligan è venuto a sapere che mi sarei trasferito a Berlino.

Deve esserci rimasto male. Kurt, se ricordate, era il corrispondente di Radio Onda d’Urto nell’aldilà, che ogni settimana sentivo per la nostra rubrica, Mai più soli. Lo sentivo attraverso un telefono di sua invenzione, lo Hooligan, che chiama il mondo dei defunti grazie all’intermediazione di un cestino del pranzo e un accelleratore di particelle. Da Milano usavamo una turbina atomica di quaranta chilometri sepolta in Svizzera, grazie alla ben nota convenzione fra Radio Onda d’Urto e il CERN di Ginevra. Quando ha saputo del mio trasferimento, Kurt ha subito pensato al futuro. Si è chiesto se ci fossero accelleratori nucleari nei pressi di Berlino. Lì nell’aldilà Wikipedia non funziona, quindi per scoprirlo ha dovuto chiedere in giro.

“No, non c’è. Ma magari ci fosse”, gli ha detto Werner Heisenberg, uno dei massimi fisici teorici del Novecento, che i nazisti avevano incaricato di scoprire la bomba atomica prima degli Stati Uniti. “Se lo avessimo avuto, e avessi realizzato la bomba in tempo, gli americani non l’avrebbero usata, avrebbero avuto paura di una ritorsione. Se avessimo avuto l’accelleratore, e quindi la bomba”, ha detto Heisenberg a Kurt, “ci sarebbe stata la pace.”

La voce di una vecchia conoscenza si è intromessa prima che Kurt potesse rispondere. “Fare le bombe per la pace”, ha detto, “è come scopare per la verginità.”

“Grazie, Janice”, ha detto Kurt. “Mi hai letto nel pensiero.”

“Sì, anche a me”, ha commentato Heisenberg.

Ma la questione restava aperta. Adolf Hitler, che un tempo era stato il datore di lavoro di Heisenberg, e che per manie di protagonismo non si allontanava un attimo da Kurt nella speranza di strappare una comparsata in trasmissione, si è fatto avanti a dire la sua. “Che tristezza”, ha esclamato, “la Germania,  un paese un tempo all’avanguardia, è costretta, oggi, a restare indietro nella ricerca scientifica. Guardateli, i benefici della vostra democrazia!”

Kurt gli ha fatto notare che nella Germania di oggi mancano anche alcune altre cose, oltre agli accelleratori di particelle. “I campi di sterminio, ad esempio.”

“Ecco, vedi?”, si è infervorato Hitler. “Allora anche tu sei d’accordo con me! Alla democrazia mancano un sacco di cose!”

Kurt ha detto che non proprio, no, ma ormai Adolf era inarrestabile. Ha detto che Kurt, tedesco di origini ma americano di nascita, doveva rendersi conto che la sua nazione era come Bronte, che è un paesino della Sicilia famoso per i pistacchi. Hitler era molto appassionato di pistacchi, e un tempo era stato invitato a Bronte per assaggiare quelli locali. Preso dagli impegni di governo, aveva detto a Mussolini che lo ringraziava ma li conosceva, i pistacchi di Bronte, arrivavano anche a Berlino. Ecco cosa gli aveva risposto Mussolini: “Non è la stessa cosa, sai”, aveva detto. “Non esportano prodotti della stessa qualità di quelli che si tengono per sé.”

Adolf ha detto a Kurt che gli americani sono come gli abitanti di Bronte. La democrazia che esportano – in Germania, o altrove – non è della stessa qualità di quella che tengono per sè. “Voi”, ha detto Adolf, “gli accelleratori di particelle ce li avete. Se ce ne aveste lasciato uno potreste continuare la trasmissione… e invece no! Peccato, vero? Eccola, la democrazia!”

Kurt è rimasto in silenzio per un po’. Adolf lo ha guardato con un misto di trionfo e compassione, e poi gli ha chiesto, “E comunque, lo sai, no, Kurt, a cosa vi servono a voi gli accelleratori di particelle?”

“Certo che lo so”, ha borbottato mestamente Kurt. “Per la pace.”

Pochi minuti dopo, Kurt, abbracciato a Hitler, si lamentava della mia defezione da Mai più soli. “Guarda come siamo simili, ti capisco benissimo”, lo ha blandito Hitler, dolcemente, “Anche a me gli italiani mi hanno tirato una fregatura all’ultimo momento. Sono fatti così”. Proprio in quel momento è arrivato un cablogramma. I più attenti avevano già capito chi era il mittente. Solo una persona nell’aldilà si ostina a comunicare per cablogrammi, trovando la telepatia dei defunti una sordida mistificazione degli spacciatori di religione.

Caro Kurt, diceva il cablogramma,

ho appreso con mestizia della prossima chiusura della tua trasmissione, per mancanza di accelleratori di particelle. Mi pare un vero peccato. Se ti interessa, io ne avevo uno mio privato poco lontano dal confine polacco, abbastanza vicino a Berlino per poterlo usare. È nascosto, ma Vyacheslav dovrebbe sapere dove si trova.

Sono certo, proseguiva il cablogramma, che avrai non meno piacere di me ad ospitare alla fine di ogni tua trasmissione un mio piccolo comunicato, a mo’ di affitto per l’accelleratore. Non vedo l’ora di lavorare con te.

In attesa di tuoi riscontri, ti saluto con l’affetto del primo dei tuoi fan.

Cordialmente,

Giuseppe Stalin

“Mai niente per niente, quello lì!”, ha sbottato Adolf al termine della lettura del cablogramma, ma Kurt già si era sfilato dal suo abbraccio per correre a parlare con Vyacheslav Molotov. Non ha dovuto cercarlo, perché sapeva dove trovarlo. Era, come sempre, a giocare a Risiko con Giulio Cesare, Sun Tsu e Lewis Carroll. Vinceva sempre Lewis Carroll.

Kurt gli ha spiegato che gli serviva un accelleratore di particelle, e Vyacheslav, ovviamente, ha detto di non averne mai sentito parlare. Kurt gli ha mostrato il cablogramma di Stalin. Dopo aver studiato a lungo la firma, Vyacheslav ha confessato.

“Sì, ora che ci penso dovrei averne uno, da qualche parte”, ha detto poi. “Sarà parecchio impolverato, però.” Kurt lo ha ringraziato, e si è fatto dare tutti i dettagli. Sì, l’accelleratore di particelle sovietico è abbastanza vicino a Berlino perché potesse servirci per riprendere Mai più soli. Kurt ha tirato un sospiro di sollievo e, con sincera riconoscenza, ha ricondotto Molotov fra le grinfie di Lewis Carroll, che per ingannare il tempo aveva sottratto Brasile ed Argentina a Giulio Cesare.

Molotov ha richiamato Kurt all’ultimo momento. Voleva chiedergli a cosa poteva servire a uno scrittore un accelleratore di particelle. “Se si può sapere, ovviamente”, ha precisato subito Vyacheslav, uso alla segretezza.

“Certo che si può sapere!”, gli ha risposto gioviale Kurt. “Per la pace!”

E così Mai più soli ricomincerà, questa volta da Berlino, per merito – ora più che mai – di Kurt Vonnegut. Speriamo che la striscia settimanale di Giuseppe Stalin sia un prezzo accettabile per l’uso del suo accelleratore privato. Quando me lo ha comunicato, cercando di liberarsi da un peso che un po’ lo infastidiva, Kurt Vonnegut mi ha chiesto, piuttosto scettico, come mai me ne stessi andando via dall’Italia. “A quanto pare”, mi ha detto Kurt, “andarsene via è una moda, ultimamente, da voi.”

Non ho risposto alla domanda di Kurt. Gli ha risposto Hitler, che ormai non lo molla un attimo. Ecco che cosa ha detto: “Anche in Germania, poco prima che io vincessi le elezioni, c’era una moda del genere. Se ne andavano tutti. Sai”, ha proseguito Adolf. “Era molto triste”.

Qui Vincenzo Latronico, vicino al confine polacco, in collegamento con Kurt Vonnegut, dall’aldilà. Mai più soli.

Con parole tue

(O, nello specifico, di Composti finitamente variabili)

stampa

Pria di dividerci

Grandi notizie e sconvolgimenti. A Prato Territoria è stata una cosa fantastica, che ha incluso oggetti volanti dal diametro di decine di metri. More on this later.

Dal 12 ottobre – attenzione attenzione – si farà risentire Kurt Vonnegut. L’assenza è colpa mia, non sua. Lui non ha mai nulla da fare, lì.

Nel frattempo è uscito un pezzo sul trasferimento a Berlino del sottoscritto (e di altri fuggiaschi notevoli) – su Vogue (Vogue!) di ottobre.

A Carpi alla Festa del Racconto ho parlato di fronte a un pubblico secondo solo a quello di Mantova, il che da ulteriori argomenti su Milano, se ce ne fosse bisogno.

Sul prossimo numero di Domus (novembre) ci sono due miei articoli. Anche qui, more on this later.

Prima o poi scriverò qualcosa su Murakami.

Qui il tempo incoraggia a partire.

Paesaggio con ferro da stiro

Miyake nodded. “It’s almost a sickness with me. Why do you think I came to live in this navel-lint nothing of a town? It’s because this place gets more driftwood than any other beach I know. That’s the only reason. I came all the way out here to make bonfires. Kind of pointless, huh?

Murakami Haruki, Paesaggio con ferro da stiro. Il resto qui.