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Con parole tue

(O, nello specifico, di Composti finitamente variabili)

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Pria di dividerci

Grandi notizie e sconvolgimenti. A Prato Territoria è stata una cosa fantastica, che ha incluso oggetti volanti dal diametro di decine di metri. More on this later.

Dal 12 ottobre – attenzione attenzione – si farà risentire Kurt Vonnegut. L’assenza è colpa mia, non sua. Lui non ha mai nulla da fare, lì.

Nel frattempo è uscito un pezzo sul trasferimento a Berlino del sottoscritto (e di altri fuggiaschi notevoli) – su Vogue (Vogue!) di ottobre.

A Carpi alla Festa del Racconto ho parlato di fronte a un pubblico secondo solo a quello di Mantova, il che da ulteriori argomenti su Milano, se ce ne fosse bisogno.

Sul prossimo numero di Domus (novembre) ci sono due miei articoli. Anche qui, more on this later.

Prima o poi scriverò qualcosa su Murakami.

Qui il tempo incoraggia a partire.

Paesaggio con ferro da stiro

Miyake nodded. “It’s almost a sickness with me. Why do you think I came to live in this navel-lint nothing of a town? It’s because this place gets more driftwood than any other beach I know. That’s the only reason. I came all the way out here to make bonfires. Kind of pointless, huh?

Murakami Haruki, Paesaggio con ferro da stiro. Il resto qui.

Cosa si dice in giro

Only the young have such moments. I don’t mean the very young. No. The very young have, properly speaking, no moments. It is the privilege of early youth to live in advance of its days in all the beautiful continuity of hope which knows no pauses and no introspection.

One closes behind one the little gate of mere boyishness — and enters an enchanted garden. Its very shades glow with promise. Every turn of the path has its seduction. And it isn’t because it is an undiscovered country. One knows well enough that all mankind had streamed that way. It is the charm of universal experience from which one expects an uncommon or personal sensation — a bit of one’s own.

One goes on recognizing the landmarks of the predecessors, excited, amused, taking the hard luck and the good luck together — the kicks and the halfpence, as the saying is — the picturesque common lot that holds so many possibilities for the deserving or perhaps for the lucky. Yes. One goes on. And the time, too, goes on — till one perceives ahead a shadow-line warning one that the region of early youth, too, must be left behind.

This is the period of life in which such moments of which I have spoken are likely to come. What moments? Why, the moments of boredom, of weariness, of dissatisfaction. Rash moments. I mean moments when the still young are inclined to commit rash actions, such as getting married suddenly or else throwing up a job for no reason.

Due parole invece che una

Tempo fa, sull’Espresso, Carla Benedetti ha pubblicato un lungo articolo (“La superbia degli editor”) in cui rifletteva sull’editing e sul ruolo che si sta guadagnando nella scrittura  in Italia, oggi (ripubblicato qui, sul Primo Amore). Le ho risposto, sempre sul Primo Amore, quello che segue.

(Aggiornamento: Carla Benedetti ha replicato, qui. Massimiliano Parente ha ribattuto su Libero. Anche Dario Voltolini ha scritto sul Primo Amore. Si darà seguito.)

Cara Carla Benedetti,

ho letto con interesse quello che negli ultimi giorni si è scritto, sul “Primo Amore”, a proposito di editing.

Appartengo al gruppo degli scrittori “editati” – seppur, come dirò, in modo molto diverso da quanto ha fatto, ad esempio, Lish – e confermo la tua accusa: di editing si parla poco, almeno da parte degli scrittori (per quanto io sappia), e quando lo si fa è spesso per opporre un rifiuto molto netto o, viceversa, per cantare le lodi della forma di irresponsaibilità garantita dalla consapevolezza di avere qualcuno che ci penserà al posto mio. L’esperienza di editing che ho avuto con il mio primo romanzo non è rispecchiata da nessuna di queste posizioni.

Il rifiuto di ogni intervento diverso da quello dell’autore è, in genere, motivato con un appello all’autorità (appunto), che nega legittimità ad ogni intervento altrui, per dir così, a priori. Penso, ad esempio, all’appassionata (e nel complesso molto coerente) invettiva contro l’editing che fa Massimiliano Parente a un certo punto di Contronatura. Questa posizione non mi ha mai conquistato del tutto, perché personalmente, da scrittore alle seconde armi, non credo di essere in grado di tracciare una linea molto precisa fra l’intervento altrui e la mia decisione (influenzata da qualcosa che ho letto, o da un commento, o da un brandello di conversazione sentito al bar) di ripensare a qualcosa che ho scritto.

Un esempio: ho letto alcune pagine di quello che sto scrivendo ad un amico. Al termine della lettura, si è complimentato con me per la scelta di citare, nella descrizione di un certo personaggio femminile, quella che Roberto Bolaño fa di Liz Norton sotto la pioggia all’inizio di 2666. Non mi ero reso conto di aver citato quel passaggio (che pure conosco), e tuttavia, appena me lo ha fatto notare, mi sono accorto che l’influenza era molto evidente, e ho deciso di riscrivere quel pezzo.

Ovviamente si trattava di pagine che avevo appena scritto, e probabilmente (o forse no?) rileggendole me ne sarei accorto (fra l’altro, questi plagi inconsapevoli mi capitano spessissimo) e sarei intervenuto. Ma questo, mi sembra, si può qualificare come una forma, molto blanda e sì, “maieutica”, di editing. Per quanto mi riguarda, l’intervento mi è stato gradito:  e mi sembra che tanto basti a desiderare argomenti contro l’editing invasivo che non costringano a delegittimare interventi come questo. Deve essere possibile distinguere.

Si potrebbe, volendo, considerare il rifiuto radicale di ingerenze nel testo come prodotto di una certa metafora della scrittura: la metafora del creatore, che a proprio indiscutibile arbitrio dispone delle sorti delle sue creature. In questo caso, la posizione di chi vede nell’editing una comoda deresponsabilizzazione e una facilitazione del lavoro dello scrittore sembrano – come nel caso di Buttafuoco da te citato – riflettere una metafora della scrittura come fase di una filiera di produzione industriale. Un mio compagno di università ha lavorato, per alcuni mesi, al controllo qualità di una ditta di servizi. Dopo i primi giorni di lavoro, a cena, gli ho chiesto se non temesse di trovarsi in un rapporto conflittuale con i colleghi (suoi pari grado) che era suo compito “bacchettare”. Al contrario, mi ha spiegato, questi erano molto lieti della sua presenza: li toglieva dall’imbarazzo di ricevere un reclamo dai clienti, e dava loro la possibilità di migliorare le proprie competenze lavorative. In questo senso, posizioni come quella di Buttafuoco mi sembrano vedere nell’editor una specie di addetto al controllo qualità.

Non è un caso, mi pare, se l’argomento principale della cantilena in difesa degli editor “forti” si impernia proprio sull’aspetto industriale dell’editoria: il rapporto col grande pubblico, la derisione di un autore “asserragliato sulla sua torre d’avorio”, spesso un caricaturale uomo di paglia in cui nessuno scrittore si potrà mai rivedere pienamente e la cui demonizzazione è del tutto funzionale alla produzione di un certo tipo di narrativa. Lo scrittore, in questo caso, è visto come una sorta di fornitore di contenuti, la cui forma andrà tuttavia dettata da una voce in contatto con i misteriosi “gusti del grande pubblico” e al riparo dall’influenza di pericolose mistificazioni intellettuali. Al di là della fuorviante categorizzazione forma/contenuto, questa impostazione mi sembra tradire completamente quella che è, o dovrebbe essere, la natura dell’attività dello scrittore.

Ma non solo. Ho sentito di autori che si consultano con gli editor (o gli agenti) addirittura sulla trama di ciò che scrivono, così abdicando persino al ruolo, già mesto e ridotto di suo, di fornitori di idee da scrivere in uno stile altrui. In questo caso la metafora industriale trova il suo compimento perfetto: è in atto una divisione del lavoro in cui i ruoli sono interscambiabili, e il cui prodotto finale è a tutti gli effetti frutto di una collaborazione quasi paritetica. Non conosco le prassi di editing di Sergio Claudio Perroni (che come traduttore, però, mi è sempre parso molto rispettoso ed attento): la sua aspirazione a partecipare del successo di certi romanzi a cui ha lavorato sembra, tuttavia, riflettere un’impostazione editoriale di questo tipo. Che, per fortuna, non è quella che ho incontrato io.

Il mio editing è stato una versione più completa e strutturale dell’osservazione casuale mossami dal mio amico. È consistito in una serie di incontri con una persona che aveva letto con molta attenzione il dattiloscritto che avevo mandato alla casa editrice. Il mio editor non ha mai lavorato direttamente sul testo. Quando ci vedevamo, nel corso di varie ore mi parlava dei dubbi che, “da lettore”, aveva incontrato leggendo quello che aveva scritto. Se decidevo di modificare o di riscrivere qualcosa, glielo mandavo prima dell’incontro successivo. Altrimenti, no. Quando decidevo di mantenere inalterato un passo del romanzo mi chiedeva se avevo pensato alle sue osservazioni, e mi invitava a rispondervi. Ciò, tuttavia, non era indispensabile. Concluso l’editing, ho avuto un paio di mesi per apportare al testo le modifiche che preferivo, quindi è andato in stampa senza che egli neppure lo rivedesse.

Per certi versi, anche un operato così blando può essere visto come ingerente. Si potrebbe dire che ogni volta che ho accolto una sua osservazione (ce ne sono state) ho dato una piccola prova di essere uno scrittore imperfetto. È vero, lo sono. Mi sono convinto della bontà di molte delle critiche che mi sono state mosse. Non si è mai trattato, però, di critiche “costruttive”, che indicassero cosa scrivere. Si è sempre trattato di critiche negative legate, immancabilmente, a specifici passi testuali, che era comunque mia facoltà serbare intatti. Posso dirmi certo che il mio romanzo ne sia uscito migliore – più vicino a quello che io stesso avrei voluto che fosse. Ripensando agli interventi che ho fatto in seguito alle considerazioni del mio editor, non ne “rimangerei” neppure uno.

Devo confessare di aver imparato, sì, dal mio editing. Quello che ho imparato è forse qualcosa di ovvio, di implicito nella stessa decisione di scrivere qualcosa, e che era mia colpa non avere già ben solido dentro di me prima di iniziare a scrivere: ho imparato che ogni virgola, ogni aggettivo, ogni personaggio deve essere difeso, e in quanto tale deve avere, per me, una ragion d’essere. Ho imparato ad essere meno pigro. Ricordo un saggio (possibile che fosse in appendice a un vecchio Sellerio?) intitolato Il chiodo e l’impiccato, in cui si teorizzava che se in una pagina di un romanzo veniva descritto un dettaglio di una stanza come un chiodo era necessario che, prima dell’epilogo, qualcuno vi si impiccasse. Non è questo il tipo di ragion d’essere a cui mi riferisco. Esiste, però – o almeno, esiste in me, e forse è una dimostrazione di immaturità artistica o di inadeguatezza – una pigrizia che scopro di avere quando scrivo, una tendenza a rinunciare, alle volte, a riscrivere ancora una volta una pagina di cui sono scontento, ad abbandonarmi a certi artifici in fondo facili facili – e che magari so essere d’effetto – quando non so come cavarmela con l’immaginazione e la forza del linguaggio. Sono queste pigrizie e queste tendenze che ha scovato il mio editor – non tutte (anzi, rileggendo oggi il mio romanzo, uscito appena due anni fa, vorrei proprio cantarne quattro allo scalcagnato ventitreenne che l’ha scritto), ma alcune. Invitandomi a rifletterci non mi ha in alcun modo deresponsabilizzato a loro riguardo, poiché potevo mantenerle intatte. Ha semplicemente sostituito la sua voce alla mia quando quest’ultima ha omesso di ripetere, ancora una volta, “Sei proprio soddisfatto di come ti è venuta questa pagina?”

La mia esperienza è, più o meno, questa. Una questione, certo, resta intatta: cosa distingue un editing di questo genere, ammesso che si tratti di un genere “sostenibile”, da quell’intervento sul lavoro autoriale che è contiguo con la riscrittura, o addirittura la commissione di un testo? La facoltà di chi scrive di rifiutare un certo intervento? Ma l’esistenza di agenzie di editing a pagamento dimostra, se non altro, che molti autori sono ben contenti di sottoporvisi. Come mai?

Quale idea di letteratura sembra diffondersi, se è questo il modello proposto? Si risolve tutto nella tensione economica, nell’aspirazione alle classifiche?  Cosa spinge un autore ad accettare (o rifiutare) di sottoporsi a un certo tipo di editing? La sua segreta virtù? L’offerta economica come contropartita, la consistenza del conto in banca prima di firmare? Basta o basterebbe la presenza di una certa editoria di qualità per diminuire la frequenza di queste rese incondizionate e di questi crolli? E se no, cosa?

Le puntine da disegno del capitale

C’è una cosa pubblicata di recente da Carmilla, di Andrea Scarabelli, che merita, e inizia così:

Sono le puntine da disegno del capitale.
Sono studenti, stagisti, sono in ricerca.
Conficcati in un muro in attesa di cadere, sostengono il peso per un po’; poi cadono.


Il seguito qui.

Quello che si dice è falso:

siamo ben vivi, qui.

Isola Art’s Club Band

A Lussemburgo, al centro per l’arte contemporanea Casino Luxembourg, ci sarà una performance musicale di Steve Piccolo, Xabier Iriondo e Gak Sato. Si distribuirà anche la versione francese di questo mio racconto, in una splendida traduzione di Marie-Claire Delay. Così.

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Performance électro-acoustique

Isola Art’s Club Band et Vincenzo Latronico

Xabier Iriondo – table guitar, inventions, kalimba, machines
Steve Piccolo – chant, basse, excentricités
Gak Sato – thérémine, percussion, machines

Un groupe de reprises comme on le connaît, mais installé comme dans l’arrière-chambre d’un mastroquet expérimentalement malmené et oublié par le temps autant que par les médias de masse, les directeurs de labels, les percepteurs et – à l’exception du cas extrême – des policiers et des bandits de ce monde. Les boissons y sont bon marché, les filles sont sympathiques et la nourriture comestible par moments (à vos propres risques et périls). Quelque part au fond des provinces, la tradition des câbles bruyants et des fils exposés, des microphones à distorsion, des larsen et des serveuses aux langues de vipère n’a jamais été abandonnée. Steve Piccolo chante des mélodies que tout le monde connaît et dont personne ne se lasse jamais sur un accompagnement de tous genres de bruits, y inclus, par-ci, par-là, des notes. Un mélange qui relève du pérenne Sgt. Pepper’s et d’une session open mic. Accompagner le chanteur à haute voix est définitivement encouragé. (auto-description) Ce trio multiculturel, composé d’Iriondo (IT), Piccolo (USA) et Sato (J) a ses racines biographiques dans trois coins du monde : Milan, le New Hampshire et Tokyo. Qu’ils jouent dans des groupes (comme, par exemple, le groupe de travail pour installations sonores DE-ABC) ou en solo, ils ont enregistré et composé dans le monde entier. Dans le cadre de l’exposition Soft Manipulation – Who is afraid of the new now? au Casino Luxembourg, ils représentent le Isola Art Center, un projet initié par l’artiste luxembourgeois Bert Theis à Milan. En complément à ce concert, un texte intitulé Cette soif qu’on a expliquant l’histoire du district d’Isola à Milan, écrit par Vincenzo Latronico, auteur, traducteur et doctorant en philosophie, sera distribué au public.

Una prova di traduzione, quasi

Sono il tuo imperatore Fidanzato a vendetta
TITUS ANDRONICUS DIO DELLA GUERRA
FRA LE ROVINE DELLA SUA ANATOMIA
SOGNA UN SOGNO DI BIMBO SOGNA LA SUA DAMA
Giustizia QUANDO RICHIUDE GLI OCCHI
PUÒ STRINGERE IN MANO IL SUO SENO
Giustizia E IL SUO SESSO DORATO
Giustizia E vendetta SUSSURRA LA CENERE
CANTA LA POLVERE D’OSSA IN UN’ECO

Ma dimmi, come va?

“Questa sua rassegnazione non era ciò che si definisce rassegnazione, e neppure pazienza o adattamento, ma piuttosto uno stato di mansuetudine, un’umiltà acquisita e incomprensibile che lo faceva piangere del tutto a sproposito e in cui la sua immagine, quello che Morini percepiva di Morini, si diluiva pian piano in modo graduale e inarrestabile, come un fiume che smette di essere fiume o come un albero che brucia all’orizzonte senza sapere che sta bruciando.”

R. Bolaño, 2666. La parte dei critici. Sì, di nuovo.