La nostra sete

Così, per riprendere un po’ il filo. Il quattordici agosto è uscito un mio racconto sul Manifesto. È questo.

La nostra sete

Alla fine Michela e Gregorio VII si conobbero solo dopo uno o due anni che lui aveva passato a occhieggiarla distrattamente attraverso la vetrina del suo malandato bar sport su piazzale Lagosta, alla sera, quando gli unici avventori erano pensionati insonni e malavitosi rosicchiati dal crack. Rispetto alle altre aveva un giro di clienti più lento, macchine facoltose e sporadiche che si avvicinavano rombando alla velocità di tre chilometri l’ora. Aveva chiesto di lei un paio di volte a Donato, quando aveva bevuto abbastanza per essere certi che, il giorno dopo, poco o nulla avrebbe ricordato della sua curiosità. Fu così che andò:
“Da quant’è che è in giro?”, gli aveva chiesto.
“Due, tre anni,” aveva risposto Donato, facendo stridere sul bancone il bicchiere vuoto di amaro.
“Prima dov’era?”
“Boh. Romania. Non lo so.”
“…”
“Se vuoi te la presento.”
“E poi?”
“Dovrai improvvisare.”
“Lascia stare, va.”
Non era vero, non voleva lasciar stare. E così quella sera era già passata la chiusura, e lui stava infilando i bicchierini di grappa nella lavastoviglie tutti allineati, simmetrici rispetto all’asse del cestello. Sentì un vociare acceso, e uno sportello chiuso troppo forte, e niente più. E poi sentì un suono di biglie di vetro che stridono l’una contro l’altra sbocciandosi nella mischia di una pista sulla sabbia, e sentì che erano unghie che grattavano contro la portafinestra già serrata del locale, attraverso la griglia della saracinesca, e  sentì che era Michela, ed aprì.
“Un Cynar, per favore”, chiese Michela, lasciando filtrare fra le labbra un rivolo di sangue in un tovagliolino.
“Che cosa è successo?”, chiese lui.
“Niente,” sorrise Michela, un po’ tumefatta.
“È una pugile professionista, e stanotte aveva un incontro clandestino per saldare un debito col suo spacciatore, ma era deconcentrata ed è andata così,” spiegò Donato.
Le spalle di Michela, visibili attraverso la camicia lacerata, erano viola e nere.
“Niente, davvero,” aggiunse Michela.
“Partecipava ad una gara di moto truccate in tangenziale e la sua Ducati è scivolata allo svincolo di viale Zara, per colpa della pioggia,” chiarì Donato.
“Niente, sul serio,” insisté lei.
“Ha difeso una ragazzina aggredita da tre ubriachi e quelli per ripicca, per frustrazione, le hanno lanciato addosso un espositore di cartoline promozionali,” concluse Donato, uscendo. Le mani della ragazza erano striate di rosso.
“Sei tutta bagnata, e un po’ rotta,” disse il barista.
“Sono Michela,” disse Michela, tutta bagnata, e un po’ rotta.
Il barista la osservò come si osserva un piccolo problema dalle conseguenze gradite. Ai suoi piedi si era formata una pozzanghera di pioggia, increspata ogni tanto dalle gocce che ancora le colavano dalla minigonna.
“Plic”, disse una goccia.
“Io sono Gregorio VII”, disse Gregorio VII. “Vieni, ti accompagno a casa.”

La casa di Michela era poco distante, in via Confalonieri; era in mezzo a un grande giardino; misurava sedicimila metri quadrati. Era stata una fabbrica distaccata della Siemens, almeno fino a quando gli operai la abbandonarono per vedersi sostituiti, negli anni e nell’ordine, dalla polvere, dagli artigiani, dai cicloriparatori, dagli attivisti di Legambiente e Rifondazione Comunista, da filosofi e artisti, e da famiglie rumene fra cui quella di Michela. Poi anche il nome cambiò e divenne Stecca degli Artigiani, e da fabbrica abbandonata il palazzo si trasformò in officina e in laboratorio e in novità e infine, con altro tempo, in opportunità di speculazione e in problema. Ma in quel momento era solo la casa di Michela, di fronte a cui Gregorio VII sulla strada di casa era passato molte volte, pensando al valore dell’immobile e a tutto quello che le attività al suo interno stavano facendo per l’immagine e la notorietà del quartiere, calcolando approssimativamente l’indotto per i bar e le gallerie, forse sognando che lì dentro vivesse la puttana che passava le notti a scrutare, e forse no.
“Non sapevo che qualcuno abitasse qui.”
“Non è vero”, disse Michela.
“Non sapevo che tu abitassi qui.”
“Non sapevi neppure che esistevo.”
“Anche questo, non è vero.”
“…”
“Stai meglio?”
“No.” Il sangue faticava a rapprendersi, per via della pioggia. Sulla fronte le stava spuntando un bozzo bluastro, come un fungo all’inizio dell’alba.
“Ti aspetto a colazione da me, domani.,” disse Gregorio VII. Questo invece era vero, la mattina seguente l’avrebbe aspettata, rinnovando l’invito, e quella successiva, e ancora poi, ogni notte ritardando di altri cinque minuti la chiusura per accompagnarla tre isolati fino alla Stecca, ogni mattino conservando fino a mezzogiorno i suoi due croissant al cioccolato dalle mani rapaci degli avventori. La nuova popolazione del quartiere prolungava le colazioni fino alle dieci, alle undici; la cioccolata, dopo un po’, finiva. Per Michela non sarebbe finito mai.
Anche le ore serali vivevano i loro cicli. Per un certo tempo, anni prima, le puttane e la loro clientela avevano rappresentato una certa fetta dei frequentatori del bar; in seguito, col trascorrere dei contratti d’affitto, dei gentrificatori, il locale accoglieva i lasciti dei ritrovi più alla moda della zona, sfaccendati coi Ray Ban e studenti assetati di daiquiri, così che un tacito armistizio aveva ridotto le visite degli habitué a qualche rapida incursione in cerca di acqua e liquore. Anche le bottiglie sulla specchiera si erano trasformate, Nardini ed Amaro del Capo cedendo il passo a fogge più fantasiose e forestiere. Michela ogni volta scherzava, ordinando bevande i cui nomi, ai suoi orecchi, sapevano di grattacieli altissimi pieni di vetro e nebbie che si diradano sulla prateria.
“Un Long Island Iced Tea, per favore.”
“Per lei”, rispondeva imperturbabile Gregorio VII, riempiendole il bicchiere di Cynar. Ne aveva ancora due o tre bottiglie. Lo beveva solo lei. “Come va la serata?”
“Così. Finisco tardi, oggi, c’è uno che passa alle tre.”
“Be’, allora mi sa che non ti aspetto”, ma dopo un po’ lo sapevano entrambi che l’avrebbe aspettata.
Quando le serate finivano presto, Michela ed Gregorio VII allungavano la passeggiata verso la Stecca, sempre di più; ciò che inizialmente nasceva dalla scusa delle sigarette, dell’auto in sosta vietata, delle colleghe da salutare, finiva per diventare un’occasione di rubare tempo assieme, di stare così. Man mano che la distanza psicologica fra i due si accorciava, iniziarono a raccontarsi alcune cose. Ecco cosa raccontò Michela: che era venuta dalla Romania nel 1998, con la famiglia; che la madre era dovuta tornare al paese; che il padre faceva il disoccupato, e l’operaio, e l’alcolista; che per un po’ aveva lavoricchiato come badante, e i figli di certe clienti ci avevano provato con lei di fronte ai genitori malati, ma altri no; che da quando viveva alla Stecca i problemi di affitto erano diminuiti; che sognava di sposarsi e di; che, col passare degli anni, il pensiero della polizia aveva smesso di lasciarle il mal di testa al mattino. Ed ecco quello che aveva raccontato Gregorio VII: che suo padre era morto poco dopo averlo chiamato Gregorio VII, fulminato da un cortocircuito nel braccio elettrico che operava alla Brown Boveri di Milano; che sua madre aveva una merceria ed una chiesa; che sognava di aprire un bar sulla spiaggia, ma lo sognavano tutti. La Brown Boveri era la Stecca prima dell’abbandono, ma Michela non lo sapeva, e Gregorio VII preferì non dirglielo.
Gregorio VII, inizialmente, lasciava che le traiettorie che seguiva con Michela si incanalassero verso vie in cui poco avrebbe rischiato di essere riconosciuto, ma dopo un po’ smise di pensarci osservando il doppio sorriso delle sue natiche sotto la minigonna, l’evidenza sfrontata del petto. Aveva l’impressione che, una volta conosciuta la ragazza, l’aggressività della sua nudità, l’erotismo così evidente della puttana, assumesse una forma di fragilità tutta sua, qualcosa che ti faceva venire voglia di toglierti il maglione e coprirle la pelle bianca. La sua pelle, osservava, era molto bianca.
“La sua pelle, sai, è molto bianca”, aveva detto una mattina a Donato.
“Non so se fai bene a parlare di lei”, aveva risposto Donato, evitando con un grugnito gli sguardi di due fanciulle a un tavolino che giocherellavano con lunghi bicchieri, l’aria tutt’attorno ad esse facendosi d’incanto bellissima e raffinata.
“Ha un protettore?”
“No. Ha un cuore. E diciannove anni.”
“…”
“…”
“Venti settimana prossima”, spiegò Gregorio VII.

Per il compleanno di Michela, Gregorio VII la portò a mangiare il pesce e le regalò un abbonamento a un corso di informatica ed italiano a cui probabilmente non sarebbe andata mai, e le disse che quella sera non lavorava perché il bar restava chiuso per un paio di mesi. Ristrutturazioni, le disse. Michela gli chiese quanti anni aveva, e se era mai stato in Romania, e in generale sembrò più imbarazzata di quanto non gli fosse mai parsa. Qualcun altro avrebbe visto in lei l’imbarazzo di sentirsi riconosciuta come papera gialla in una collezione di cigni di cristallo, e l’avrebbe capita e sospinta verso la porta con una mano leggera sulla spalla e portata da McDonald’s a bere la Sprite, e l’avrebbe amata e non sarebbe stato amato da lei. Gregorio VII no. Lui le disse che non c’era mai stato, in Romania, ma poteva portarcelo lei, per conoscere sua madre. Le disse anche di avere un figlio da una storia passata. Michela stette con lui sino a notte fonda, e si fece riaccompagnare in moto direttamente alla Stecca, senza passeggiata.
“Stai sbagliando”, gli disse Donato quando lo incrociò, un pomeriggio in cui Gregorio VII era venuto a controllare l’andamento dei lavori. “Stai sbagliando e lo sai”. Lo sapeva, e sbagliava.
Il giorno dopo il compleanno di Michela, alle due e venticinque della mattina, Gregorio VII si fece trovare di fronte al bar anche se il locale era chiuso tutto il giorno, come per un accordo silenzioso; e anche quello successivo. Ogni sera le solite strade seguivano in silenzio il loro solito percorso, e la luce e lo sguardo curioso del padre di lei osservavano dalla finestra la svolta che, sempre alla stessa ora, li portava su via Confalonieri, e Michela a notte fonda contava quello che aveva messo da parte, e Gregorio VII, dissociato e felice, studiava le sue caviglie per nulla impacciate dall’altissimo tacco, e le reggeva la borsa che a volte supponeva gravida di contante, affascinato, di lei, persino dal profumo volgare e dall’accento, quello sbagliato, così affascinato da evitare, di quando in quando, di ripetersi di avere quarant’anni e un mutuo e un locale in ristrutturazione e una condanna a pagare gli alimenti e un’automobile e tutto sommato un conto in banca di rispetto e al fianco una clandestina, una clandestina e una puttana.

I lavori di ristrutturazione del bar stavano per terminarsi, nell’aprile 2007, quando la Stecca venne sgomberata e, successivamente, rasa al suolo. Tutto accadde di prima mattina, e nel torpore del risveglio le immagini si confusero nella mente di Michela, le sirene e le guardie, i documenti assenti, il container al sole nella periferia sterrata. Gregorio VII dormiva ancora, a quell’ora, si può dire quasi serenamente, la sua coscienza forse turbata più dalle rate del mutuo che dalla decisione di firmare la petizione per lo sgombero. Adesso ha riaperto, il locale, e si chiama Wine bar qualche cosa, e ha una nuovissima dotazione di divanetti di pelle bianca, e l’aria condizionata d’estate e tanti spuntini colorati dalle diciannove in poi. La vecchia clientela se ne tiene alla larga, ormai, gravita verso altre marginalità, si sposta ogni giorno impercettibilmente più a nord, lungo viale Zara e la Fulvio Testi, sino quasi allo svincolo della tangenziale. Donato ci passava ancora ogni tanto, ma ha smesso da quando è finito il Cynar. Neppure io, ormai, ci vado più.

Una risposta a “La nostra sete

  1. Pingback: Isola Art’s Club Band « ginnastica.

Lascia un commento